In ogni guerra ci sono delle vittime innocenti. In 40 anni di guerra alla droga, lo stato centro-americano del Guatemala, può vantarsi di essere solo una vittima innocente. È stato coinvolto nel fuoco incrociato tra le nazioni a sud (principalmente Perù, Colombia e Bolivia) che producono sostanze stupefacenti illegali e il paese a nord (America) che ha il più grande desiderio di consumarle. Il Guatemala fa poco di entrambi.
Il problema è che la droga – soprattutto cocaina – deve essere trasportata dai paesi di produzione agli Stati Uniti, da sud a nord. Purtroppo per il Guatemala è così che funziona.
Ma la posizione del Guatemala sulla punta del Centro America non sempre ha rappresentato un problema. Recentemente, nel 2008, la US National Drug Intelligence Centre aveva stimato che meno dell’1 per cento delle circa 700 tonnellate di cocaina che aveva lasciato il Sud America fosse passata attraverso l’America Centrale. Ma questo era prima che scoppiasse la guerra alla droga ed il Guatemala fosse coinvolto in questo conflitto.
Prima del 2008, il metodo preferito di trasporto di droga dal Sud America agli Stati Uniti era via mare (attraverso i Caraibi o del Pacifico) o per via aerea, il contrabbando via terra era raro. Ma due cose sono accadute a cambiare radicalmente ciò, entrambe le iniziative legate alla “guerra alla droga”.
In primo luogo, Messico e Colombia – parzialmente finanziate dagli Stati Uniti – hanno intensificato la sorveglianza dello spazio aereo. Allo stesso tempo gli Stati Uniti hanno iniziato una più vigorosa cooperazione con il Messico per fermare le spedizioni di droga via mare. Nel luglio 2008 la marina messicana, a quanto pare con l’intelligence USA, ha sequestrato un carico piuttosto notevole di un “narco-sommergibile”, un semi-sommergibile carico di cocaina destinata agli Stati Uniti.
Secondo quanto riporta l’Economist, i funzionari degli Stati Uniti hanno intercettato 10 imbarcazioni simili al mese dal 2008. I cartelli colombiani hanno favorito le spedizioni via mare in quanto non devono avere a che fare – e pagare – altri cartelli in altri paesi per spedire la droga negli Stati Uniti.
Ma dal 2009, con le tratte via mare e via cielo sempre più inaffidabili, il commercio si è sposato via terra. E con questo, è nato il concetto di nazioni di “transito” ossia Paesi dell’America Centrale attraverso il quale passano droghe in rotta verso il più grande mercato della droga del mondo, l’America. Sempre più sono i paesi di transito che sono stati coinvolti nelle conseguenze terribili della guerra alla droga. Nel caso del Guatemala, funzionari degli Stati Uniti stimano che 300-400 tonnellate di cocaina sono trasportate attraverso il Paese ogni anno a partire dalle sette tonnellate spedite nel 2008.
Questo è spesso il problema con la guerra alla droga: spostare il problema da una regione all’altra. Come il presidente della Colombia Juan Manuel Santos ha precisato in un’intervista a questo giornale 14 mesi fa: «Stiamo aiutando gli altri Paesi – i Paesi dei Caraibi, l’America centrale, il Messico – perché il nostro successo significa più problemi per loro. C’è un effetto a catena». Significa che se il problema è eliminato in un Paese o in una regione, aumenta da qualche altra parte perché la domanda – soprattutto dagli Stati Uniti – rimane invariata.
Le nazioni di transito sono oggi riconosciute come una serie distinta di Paesi coinvolti nella guerra alla droga. Producendo e consumando poche droghe sono tra le vittime più innocenti. Ma ora hanno un portavoce rumoroso nel presidente del Guatemala Otto Pérez Molina. In precedenza un direttore dal pugno di ferro dei servizi segreti militari (accusato da alcuni di gravi violazioni dei diritti umani e torture durante il suo mandato, accuse che lui nega) Pérez Molina è diventato presidente un anno fa. Ha sorpreso molti quando, in poche settimane, ha dichiarato che la guerra alla droga ha fallito e che la comunità internazionale ha bisogno di porre fine al “tabù” nel discutere di depenalizzazione. Da allora ha assunto un ruolo guida al vertice delle Americhe a Cartagena lo scorso aprile e durante l’Assemblea delle Nazioni Unite a settembre. La prossima settimana sarà al suo posto al meeting della élite economica mondiale, il forum di Davos in Svizzera.
Pérez Molina è inequivocabile sulla necessità di cercare un’alternativa al paradigma corrente, ma non è il solo. Sempre più spesso, i politici di tutta l’America Latina stanno chiedendo se il prezzo della guerra sia stato troppo alto per le loro nazioni, mentre i Paesi consumatori, soprattutto in occidente, hanno danni di gran lunga inferiori alle loro istituzioni. Come Santos ha detto l’anno scorso: «Per la Colombia, le droghe sono una questione di sicurezza nazionale, per gli altri Paesi è soprattutto un problema di salute e criminalità».
Questo è il cuore del risveglio in America Latina, la sensazione che proibizionismo ha permesso a cartelli ricchi e potenti di salire alla ribalta in modo tale da minacciare le istituzioni dello Stato – la polizia, il sistema giudiziario, l’esercito, i media e il corpo politico. In America Latina non si tratta di riabilitazione e criminalità, si tratta di una minaccia alla stessa esistenza dello Stato.
Pérez Molina, in un’intervista con l’Observer prima della sua visita a Davos, ha affermato che la necessità di rivedere l’efficacia della guerra alla droga non è più facoltativa. «Credo che questo sia da imporre vista la situazione che dobbiamo vivere in Guatemala, in America Centrale e in tutta la regione nel corso degli ultimi 40 anni. Abbiamo visto che il proibizionismo e la guerra contro la droga non hanno dato i risultati sperati. Tutto il contrario. I cartelli sono cresciuti in forza, il flusso di armi verso l’America centrale dal nord è cresciuta e le morti nel nostro Paese sono cresciute. Questo ci ha costretti a cercare una risposta più appropriata».
La situazione in Guatemala è diventata più grave in quanto i cartelli messicani – cercando rifugio da un tentativo di sconfiggerli militarmente – si sono inseriti in Guatemala e hanno cercato di controllare le rotte del traffico attraverso quel paese. E con i cartelli nascono altri incubi: sequestri, estorsioni, killer e il traffico di persone.
I cartelli ora costituiscono una seria minaccia per lo Stato del Guatemala, come Pérez Molina ammette: «I trafficanti di droga sono stati in grado di penetrare le istituzioni in questo Paese attraverso l’impiego delle risorse e del denaro di cui dispongono. Stiamo parlando di forze di sicurezza, pubblici ministeri, giudici. Il denaro della droga è penetrato queste istituzioni ed è un’attività che minaccia direttamente le istituzioni e la democrazia dei Paesi».
Questo è il problema che sempre di più anima i leader dell’America latina. Mentre i loro Paesi combattono una battaglia per sopravvivere alla ricaduta politica e istituzionale della guerra alla droga, i leader dei paesi consumatori in Occidente restano disimpegnati da questo aspetto del dibattito. Uno dei motivi per cui Pérez Molina è in viaggio per Davos è quello di portare il dibattito sul loro territorio.
«Io credo che, alla fine, i paesi occidentali non riescono a capire la realtà che Paesi come Guatemala e quelli del Centro America devono vivere», ha detto Pérez Molina. «Ci sono state un sacco di chiacchiere, ma nessuna risposta efficace. Credo che, in ultima analisi, ciò è dovuto a una mancanza di comprensione da parte dei paesi occidentali».
«Un messaggio deve essere inviato ai leader dei Paesi con i più grandi mercati della droga. Devono pensare non solo al loro paese, ma piuttosto al contesto di ciò che sta accadendo nel mondo, in regioni come l’America centrale, dove questa distruzione, questo indebolimento della democrazia, sta accadendo. Devono essere aperti a riconoscere che la lotta contro la droga, nel modo in cui è stata condotta, non è riuscita. Questo è un fatto, un fatto che può essere analizzato dopo 40 anni».
Pérez Molina è stato più incisivo degli altri leader nell’argomentare in modo esplicito di una introduzione di un mercato regolamentato della droga. Non la piena legalizzazione, ma un mercato controllato e regolamentato per la produzione, la distribuzione e la vendita di stupefacenti.
Il proibizionismo della droga, dalla prospettiva dell’America Latina e Centrale, sta diventando sempre più difficile da accettare. Non solo per il costo economico, politico e civile di questi Paesi, ma a causa del paradosso crescente fra cui i recenti avvenimenti negli Stati Uniti.
Nel mese di novembre due stati degli Stati Uniti, Colorado e Washington, hanno votato per legalizzare la marijuana. Il governo federale ha indicato che non cercherà di rovesciare la volontà del popolo in questi due stati. Eppure l’America aiuta ancora a finanziare i tentativi del governo messicano per sradicare le piantagioni di cannabis ed intercettare le spedizioni in viaggio verso gli Stati Uniti. Come un ex ministro degli esteri messicano ha detto di recente «Perché stiamo distruggendo camion di marijuana in Messico, quando la stanno vendendo … in alcuni stati degli Stati Uniti? Non vi è alcuna logica a riguardo».
Un alto funzionario dell’amministrazione del neo eletto presidente Enrique Peña Nieto ha dichiarato: «Non possiamo trattare un prodotto come illegale in Messico e cercare di evitare che venga smerciato negli Stati Uniti quando lì ha uno status legale».
Pérez Molina riconosce questo paradosso e spera che gli Stati Uniti lo facciano pure. Nonostante ciò i segnali se non sono incoraggianti. Quando Pérez Molina ha annunciato la sua preferenza per un mercato regolamentato della droga, la risposta è stata rapida. «Entro 24 ore, l’ambasciata (statunitense) qui in Guatemala, ha fatto una dichiarazione che respingeva questa posizione. Tuttavia, alcuni mesi più tardi abbiamo visto in occasione del Vertice delle Americhe che il presidente Barack Obama ha detto che gli Stati Uniti erano disposti ad avviare un dialogo, anche se hanno mantenuto la loro posizione di rifiuto sulla regolamentazione o la depenalizzazione».
«Io credo che, entrando nel suo secondo mandato, [Obama] sia più aperto in questo dibattito. Alla fine, questa è la direzione verso cui tutti noi dobbiamo andare. Ci sarà un cambiamento dal paradigma del proibizionismo e della guerra contro la droga, un processo che ci porterà verso la regolamentazione. Mi aspetterei una posizione più flessibile e aperta dal presidente Obama nel suo secondo mandato».
La decisione di Pérez Molina di portare il dibattito a Davos segna che un nuovo fronte si apre nel dibattito e cioè di coinvolgere i leader del mondo degli affari. Molti già sono impegnati. La rivista Economist sostiene la legalizzazione delle droghe da più di 20 anni. E c’è una lobby degli affari in crescita negli Stati Uniti che vuole spostare il mercato della droga e i profitti dai cartelli ai capitalisti. Sette anni fa Forbes, la bibbia degli affari d’America, annoverava 500 membri della comunità d’affari che erano favorevoli ad un mercato regolamentato della droga.
Questo è il dibattito che Pérez Molina vuole alzare a Davos «con i leader di diversi settori della società». Ha detto: «Questo deve portare alla revisione dei protocolli, convenzioni presso le Nazioni Unite, ma è anche importante che questo sia accompagnato dalla società civile dei vari Paesi. Questo cambiamento verrà dalla combinazione di queste forze – la politica deve essere rapportata con l’economia. Ecco perché è importante per questo problema essere presenti a Davos. È importante per la questione da discutere essere presenti in tali ambienti».
Nel cercare alternative alla guerra alla droga e nella definizione di proposte radicali per un mercato regolamentato i guatemaltechi si sono consultati con la Fondazione Beckley, probabilmente il principale sostenitore globale nell’usare la scienza e l’evidenza empirica per condurre il dibattito sulla guerra alla droga . Amanda Fielding, capo della Fondazione Beckley, era in Guatemala la scorsa settimana presentando le proprie proposte per una politica alternativa sulle droghe.
Le proposte possono influenzare la discussione di Pérez Molina a Davos questa settimana essendo pronto a spostare il dibattito da una discussione legato alla moralità ad uno legato alla scienza. «Contatti come la Fondazione Beckley ci permettono di avere maggiori dati scientifici. Questo ci permette di dimostrare che la lotta che è stata condotta per questi ultimi 40 anni non è riuscita. Con i dati scientifici si può dimostrare che, ponendo l’accento sulla salute, sui programmi di prevenzione, sui programmi di formazione, allora la regolamentazione è un’alternativa che permette di evitare più morti, maggiori danni e più criminalità, come quello che abbiamo avuto fino ora».
Ed appena giunto in Europa, arriva con un messaggio per i consumatori di droga nei paesi consumatori. «Invito a riflettere sulla strada della morte dietro la [loro] cocaina. Ha lasciato un cammino di distruzione, minato le istituzioni e la democrazia dei paesi del Centro America, come il Guatemala. Dovrebbero riflettere non solo sul danno alla propria salute, ma anche sui morti che consentono loro di consumare la cocaina».
«Credo che dovrebbero riflettere su questo, per evitare queste morti che si verificano nei paesi di transito. Noi non produciamo e non consumiamo, ma siamo Paesi che soffriamo morti e mettiamo le nostre istituzioni e la nostra democrazia a rischio».
Traduzione dell’articolo del Guardian “Guatemala’s president: ‘My country bears the scars from the war on drugs’“ di John Mulholland